L'architettura non esiste, esiste l'opera architettonica. Esordisce così Mario Botta, Premio Chiara alla Carriera 2021, che in un Teatro di Luino silenzioso e incantato dal Re dei visionari, ascolta rapito i racconti e i bilanci di una carriera luminosa e variegata.
E sono proprio le opere, cioè la concretizzazione delle idee, quelle che vediamo scorrere sul grande schermo: edifici pubblici e privati, scuole e case, municipi e musei, ma anche monili e pezzi di arredamento, scenografie teatrali e tutto ciò che attraverso la materia si esprime, parla, racconta, ferma il Tempo e gli dà forma, consegnandolo alle generazioni che verranno.
Perché l’architetto - insiste Botta - non è che l’ultimo ingranaggio di un meccanismo che vive, pensa e respira. Nella realizzazione dell’idea c’è la mano di chi progetta, il sudore di chi costruisce, la precisione di chi rifinisce, la volontà, le risorse, il sogno del committente.
Introdotto da Claudia Donadoni e interpellato dalla firma del Corriere Pierluigi Panza, l’artefice dell’Accademia di Mendrisio si sofferma poi sul delicato distinguo tra stile e linguaggio e a dispetto del preconcetto che spesso accompagna gli architetti di grande fama, tiene a privilegiare il secondo. Il pensiero, dice, rischia di confondere e contaminare, forzando l’interpretazione. Per questo il professionista deve lasciare che l’ultima parola spetti alla matita, al segno, alla mano collegata all’anima, perché è proprio nel linguaggio che troviamo il giusto equilibrio, la giusta pace.
Infine, il valore dell’identità, quella che, secondo Botta, la globalizzazione rischia di liquefare. Siamo legati alla terra, al contesto che ci ha visto nascere e crescere, all’artigiano che abbiamo guardato all’opera. Lo spazio nel quale abitiamo e lavoriamo può cambiare. Ma il luogo nel quale ritroviamo noi stessi non può essere tradito, perché è solo da lì che l’architetto ricava la forza interiore utile a trasformare una condizione di Natura in una condizione di Cultura.