Varese: Archeofilm incorona Banksy. E l’arte “di tutti”

L’Archeofilm Festival innesca una riflesione sui “padroni” della street-art, grazie al documentario vincitore

"Banksy e la Ragazza del Bataclan", l’opera che Archeofilm ha incoronato quest’anno, afferma e ribadisce concetti culturalmente preziosi.
Primo tra tutti, la maturità degli spettatori che frequentano il festival portato a Varese da Marco Castiglioni: non si spiegherebbe altrimenti l’identità di vedute tra pubblico e giuria tecnica.
Secondo, il valore di una proposta che ogni anno alza l’asticella, regalando alla città alcuni tra i documentari più interessanti e affascinanti del panorama internazionale.
Terzo, il dibattito che l’opera vincitrice, diretta da Edoardo Anselmi, è destinata ad aprire a ogni livello, popolare e istituzionale, specie in un’epoca che, grazie alla fama planetaria di Bansky, ha nobilitato la percezione pubblica della migliroe street-art, riaffermandone centralità semantica e significato sociale.
Il film, infatti, non parla dell’artista, quanto delle vicissitudini legate all’opera che, una notte, comparve sulla porta del Bataclan, reduce dall’orrenda strage terroristica.
L’ingresso fu letteralmente scardinato e portato via nel tentativo, presto abortito, di fare cassa.
Un furto riprovevole, specie per i tanti significati dell’opera, che il docu racconta per filo e per segno, intervistando tutti gli interessati, ladri compresi, includendo l’importante ruolo italiano (furono i nostri carabinieri a ritrovare e restituire la porta) e giungendo all’attuale vuoto normativo, che deve ancora decidere a chi questa triste “Ragazza” appartenga.
Banksy l’ha donata a Parigi e alla sua memoria ferita, ma a contendersene la proprietà sono il Comune, socio del Bataclan, e i proprietari dell’immobile (padroni degli infissi).
Una vicenda reale che sembra uscita da una malinconica commedia di costume e che ancora oggi cerca di chiudere lo storico cerchio aperto dalla street-art. Che per definizione è di tutti. E nel momento in cui la si chiudesse in un museo perderebbe lo spirito con cui è stata realizzata.
Roba da avvocati, insomma, ma anche da artisti, filosofi, educatori e psicologi. Perché, curiosamente, la bellezza è parte integrante del genere umano. Proprio come l’avidità.

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