I veri talenti sono, per definizione, assai rari. Basta scorrere un qualunque libro di Storia per estrarre, dal magma dei secoli e da quello che Fossati definiva il “mare infinito di gente” una manciata di individui che hanno segnato il proprio tempo e influenzato quello successivo.
Mauro Porcini è senz’altro uno di questi: un ammirevole miscuglio di testa e cuore, creatività e visione, laboriosità e rispetto.
La cosa che più mi ha colpito, leggendo “L’Età dell’Eccellenza”, è che non c’è capitolo, né pagina, né rigo in cui le componenti di quel cocktail empatico non emergano all’unisono.
In fondo, l’attuale chief design officer di PepsiCo non ha mai cambiato rotta, né corsia. Il suo è un cammino lineare e costantemente in salita. Nel senso che lo porta sempre più in alto, ma con fatica, senza mai adagiarsi, sfidando giorno per giorno le proprie capacità, prima di quelle altrui.
E anche per questo il suo libro è davvero unico. Non è propriamente un’autobiografia, né un manuale e nemmeno uno di quei preziosi saggi, vergati dalla star o dal sommo manager di turno, che dispensano perle di successo a chi, nel protagonista, vede riflessa un’ambizione, una combinazione utile a dischiudere la propria cassaforte dei desideri.
E' proprio questa la visione piramidale che Porcini rifiuta e polverizza, preferendole un caleidoscopio di esperienze, ricordi, chiavi di lettura e previsioni e parlando di sé e degli altri senza mai sfociare nel "maurocentrismo".
In "L'Età dell'Eccellenza" troviamo riversati incontri e folgorazioni, rapporti e modelli, idee e sostanza, forme e contenuti, studio e passione. Perché è questo che il designer sa fare: dona spessore alle intuizioni, colorandole con le tinte della realtà e insaporendole con l’accattivante farcia dell’utilità pratica, che alla comodità aggiunge il risparmio di tempo, spazio, costi e il valore aggiunto dell’intrigo estetico, accompagnato dal rigoroso rispetto per ciò che la Natura ci ha elargito e che noi, per troppo tempo, abbiamo depredato.
Mauro parte da Varese per studiare a Milano e si insedia a New York per lavorare ai vertici di un colosso che assomma, nel proprio marchio, le tante fette dell’American Pie. E’ cittadino del Mondo nel modo di pensare, di vestire, di osservare. Ma il suo baricentro etico resta ancorato qui, da figlio orgoglioso di una famiglia che, personalmente, ho avuto la fortuna di conoscere e che nel suo incedere, così come nella lettura del libro, ho nuovamente incontrato.
Dalle pagine di Mauro emergono chiaramente la sua voracità intellettuale, la sua fame di viaggiare, vedere, ascoltare, sperimentare; il suo rapporto con gli affetti più cari, con l’amata Carlotta, ma anche coi colleghi-amici-alleati che ha personalmente scelto, imbarcato e coinvolto nel suo cammino professionale.
A ogni passo, l'autore esprime le stesse pennellate di genuinità che scoprii nei quadri di papà Eugenio e che oggi scorgo nella morfologia emotiva delle opere realizzate dal fratello Stefano.
La radice comune è quella di un’appartenenza che non taglia fuori, bensì include, che non aggredisce ma accompagna, che sfida e spesso vince, ma senza mai rinunciare all’onore delle armi, alla decodificazione del sé attraverso il riconoscimento degli altri.
Se siete giovani e sognate di ricalcare le orme di Porcini, comprate il suo libro, studiatelo a fondo e soffermatevi lungamente sulla dimensione empatica del suo percorso. Non c’è modello cui aspirare, né idea da sdoganare, che non passi per il filtro del vissuto e del vivente. Non c’è iniziativa che non faccia i conti con il valore emotivo, oltre che pratico, della conquista.
Quello che Mauro ci presenta e racconta è una sorta di umanesimo imprenditoriale, che trova il proprio successo nella traduzione semplice di linguaggi complessi, nella capacità di aprire anziché chiudere, di rendere accessibile ai più ciò che, in altre epoche e con altre forme, sarebbe stato elitario, ermetico, esclusivo.
In questo senso, ci spiega nei primi capitoli, le tecnologie e i sistemi globali devono aiutarci a una visione a misura d’uomo dell’impresa. Non c’è idea che non possa irrobustirsi, non c’è intuizione che non possa concretizzarsi. Occorre solo lasciarsi alle spalle il concetto novecentesco dell’uomo solo al comando, la retorica edonistico-leviatana di un Mondo dei pochi per i molti.
Nella rigenerazione creativa del designer c’è il principio di un sogno che scuote i sonni di pochi, ma che poi si struttura e si afferma grazie all’equo contributo di tanti, che affiancano e sospingono il più veloce per raggiungere, insieme a lui, l’agognata meta.
Secondo Oscar Wilde “la Bellezza è una forma di Genio, anzi, è più alta del Genio perché non necessita di spiegazioni”. Mauro Porcini sembra aver fatto tesoro di questa massima, aggiungendo il personale tassello della radice, del punto di partenza imprescindibile per qualunque arrivo. Nella consapevolezza che il cammino conta quanto il traguardo e che i viandanti incrociati per strada non sono mai semplici comparse, ma attori coi quali condividere, pirandellianamente, il nostro passaggio, qui e ora.
Ciò che l’impresa può e deve fare è costruire quel miglio di strada che può condurci un po’ più avanti nella nostra plurimillenaria maratona, tentando di rimpiazzare la brutalità retrograda di scarponi e machete con la leggerezza dell’equilibrista, la delicatezza del vetraio, l’agilità della farfalla e, possibilmente, la suggestione immaginifica dell’Oculus con cui un amico di Mauro conduceva scatenate partite virtuali. Ciò che spetta al designer è sussurrare quello che altri gridano, suggerire ciò che altri ostentano, inserire abilmente tra le pieghe dello strumento o del dispositivo le risposte a qualunque domanda, le chiavi destinate alla serratura del dubbio, dell’esitazione, del ripensamento.
Perché è lo sguardo (fisico e metaforico) ciò che davvero ci distingue: la capacità di vedere gli altri, siano essi persone e risorse naturali, come compagni di un viaggio che non finirà mai. Ma che spetta a tutti noi, indipendentemente dal ruolo di ciascuno, rendere più agevole per chi, domani, lo intraprenderà.
Matteo Inzaghi